lunedì, marzo 27, 2006

 
SAPEVATE CHE PECHINO E' PIU' VICINA A LISBONA DI BRUXELLES?

La competizione scientifica è divenuta uno dei terreni su cui si gioca l’affermazione delle nuove potenze mondiali. Nei prossimi cinque anni l’India vedrà il suo settore biotecnologico crescere di cinque volte. Negli ultimi cinque anni la Cina ha triplicato le spese in R&D. Delle venti migliori università del mondo, oggi, solo due sono in Europa: mentre la Cina ha inserito per la prima volta in questa classifica due suoi atenei.

L’ultimo Science, Technology and Industry Scoreboard pubblicato nel 2005 dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), evidenzia come nel processo mondiale dell’innovazione stiano acquisendo un ruolo crescente i paesi non-membri OCSE (dunque le nazioni che non appartengono al tradizionale club delle grandi economie mondiali).
Oggi la Cina occupa il terzo posto come migliore R&D performer dietro a Stati Uniti e Giappone. Nel 2003 sempre la Cina era seconda al mondo per numero di ricercatori (863.000), dietro agli Stati Uniti (1.300.000) ma davanti al Giappone (675.000) e alla Federazione russa (487.000). E quel numero non ha cessato di crescere in questi ultimi anni: la rapida crescita delle retribuzioni dei ricercatori cinesi ha incoraggiato scienziati e tecnici di talento a rimanere nel paese, laddove nel passato sarebbero stati indotti a emigrare o a scegliersi una diversa occupazione. Quanto invece ai paesi membri OCSE, in questo stesso periodo si è registrata la tendenza sempre più vistosa alla delocalizzazione delle attività di ricerca.

L’offshoring delle attività di ricerca e sviluppo è diventato ormai una scelta abituale da parte delle multinazionali; ma ciò che più conta è che tale processo si sta gradualmente estendendo anche alle imprese di minori dimensioni, determinando uno spostamento ragguardevole, tanto in termini di risorse quanto per il significato che assume.

Ad aggravare questo quadro – sempre secondo i dati dello Scoreboard OCSE – va menzionata la caduta di interesse per gli studi scientifici nei paesi aderenti all’Organizzazione: solo uno studente su quattro nelle trenta nazioni OCSE sceglie materie scientifiche, con la conseguenza di una crescente immigrazione di talenti dai paesi non OCSE. In nazioni come l’Australia, il Canada, la Nuova Zelanda e la Svizzera la percentuale di immigranti tra i lavorati ad alta qualificazione tecnico-scientifica ha superato ormai il 30 per cento. Percentuale destinata ad aumentare, almeno fino a quando le condizioni salariali nei paesi di origine continueranno a rappresentare un deterrente alla valorizzazione di queste risorse al servizio dei propri paesi. Ma come mostrano il caso cinese e quello indiano, il miglioramento delle opportunità lavorative nelle realtà di provenienza mette immediatamente in mostra le proporzioni dello skill shortage nelle nazioni che oggi attraggono il flusso di immigranti intellettuali.

L’Unione europea produce meno laureati in materie scientifiche dell’India e, considerando i principali indicatori di innovazione (investimenti in R&D, numero di brevetti, diffusione delle ICT), non uno di questi indica la capacità del nostro continente di essere competitivo nei confronti dei paesi più dinamici. In questo quadro le dichiarazioni di Lisbona, secondo le quali entro il 2010 l’Europa sarebbe dovuta divenire “l’economia basata sula conoscenza più competitiva e dinamica al mondo, in grado di promuovere una crescita economica durevole, con opportunità di lavoro migliori e più numerose e con una più alta coesione sociale” appaiono descrivere una realtà sempre più difficile da raggiungere.

La verità è che la lezione dell’economia fondata sulla conoscenza è stata appresa (e soprattutto messa in atto) molto più rapidamente dai paesi non europei; cosicché le dichiarazioni di Lisbona hanno rappresentato le linee-guida dello sviluppo delle nazioni emergenti, più ancora che dei paesi membri dell’Unione.

Le strategie comunitarie di politica della ricerca - dalla definizione di un’”Area europea della ricerca” alla creazione di nuove agenzie sovranazionali come il “Consiglio europeo della ricerca” - se da un lato rappresentano il tentativo di reagire ad una situazione in cui l’Europa avverte di aver perso terreno rispetto agli Stati Uniti e alle nuove potenze asiatiche, dall’altro ancora non mostrano l’efficacia e la rapidità richieste dalla situazione. Soprattutto, prima ancora che queste strategie riescano a dimostrare la propria validità, già vengono avanzate proposte di nuovi strumenti (come nel caso della recente ipotesi di costituire un Istituto europeo di tecnologia) che si candidano ad occupare la scena senza che le risorse a disposizione siano incrementate e senza che un’analisi realistica della situazione affronti i problemi che impediscono alla ricerca europea di tradursi efficacemente in innovazione. Con la conseguenza talvolta di affidarsi ad interventi di ingegneria istituzionale che non fanno i conti fino in fondo con le ragioni del divario che separa l’Europa dalle realtà a più elevata capacità innovativa.

Il tema oggi è quindi quello di ripensare la strategia di Lisbona, forse in termini meno enfatici, collocandola entro un’analisi più aggiornata della realtà mondiale. Dunque, definendo i suoi obiettivi in funzione di una più attenta comprensione dei motivi che stanno portando l’Europa a reagire con ritardo alla sfida dell’innovazione.

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